Moderni pellegrini in The Hell in the cave

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Un viaggio ultraterreno è quello di Dante nell’oltretomba, un viaggio che lo porterà a conoscere la meschinità degli uomini, la volontà di riscatto, la nobiltà d’animo. Hell in the cave…

“Nel mezzo del cammin di nostra vita
Mi ritrovai per una selva oscura
Chè la diritta via era smarrita.
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
Esta selva selvaggia e aspra e forte
Che nel pensier rinnova la paura!”

 È un viaggio avvenuto più di sette secoli fa, ma che mantiene, nella vasta gamma di vicende rappresentate, un sorprendente gusto di attualità. Aspetto, proprio quest’ultimo, che il regista di Hell in the Cave, Enrico Romita, ci tiene a sottolineare nel suggestivo e originale spettacolo che ha avuto luogo nelle grotte di Castellana il 22 marzo e a cui hanno partecipato diverse classi del nostro liceo.
Un’opera mirabolante, che esula dall’attività teatrale propriamente detta, per assegnare piuttosto agli spettatori un ruolo attivo, quello di pellegrini, di tanti giovane Dante, che si apprestano ad iniziare il loro percorso oppressi, come lui, da incertezza e timore, nonché da una certa aspettativa.
Le raccomandazioni e il preambolo del regista, che anticipa, per quanto possibile sia farlo a parole, quello che li attende, svaniscono dalla mente, mentre, sotto il cielo della sera, ci si appresta all’ingresso delle Grotte, illuminate per l’occasione da fiotti di luce rossa, sanguigna, segno premonitore di quell’Inferno che aspetta i dannati che si apprestano, reticenti ma al contempo inevitabilmente attratti, a discendervi. Nella Commedia, il motore delle azioni era la volontà divina, nella realtà, le funzioni di questa sono supplite da una famelica curiosità, capace di tacitare le remore e farci percorrere, gradino dopo gradino, la scala di 21 piani che ci condurrà nel cuore della Grave, la più ampia cavità del complesso di grotte risalente a novantamila anni fa che, come una gemma preziosa, si cela, con tutta la sua magnificenza, nel nostro territorio.
Giunti alla fine della scala, si rivela allo sguardo uno spazio vasto e arioso, una stupefacente riprova della capacità della natura di creare cose meravigliose, e in quel momento, tutti i piani e le sporgenze, le formazioni rocciose e le nicchie, divengono teatro e la roccia getta ombre e rimanda eco e cela figure di dannati che, aggirandosi per la caverna, pungolano gli spettatori, che, quasi inconsapevolmente, si stringono tra loro e si guardano intorno per cogliere immediatamente il guizzo che segnali la prossima scena.
Dall’Inferno di Dante, ci vengono presentati Minosse, Caronte, Pier della Vigna, Brunetto Latini, Ulisse, Paolo e Francesca, il Conte Ugolino, Lucifero, Ciacco.
E le parole di Dante rimbombano accompagnate da strazianti lamenti, mentre davanti agli spettatori si susseguono le acrobazie di due eteree figure, le due anime di innamorati che, benchè condannati, sembrano però trionfare almeno nel preservare quel legame per cui morirono, oppure il volteggiare tra drappi rossi che simboleggiano guizzi di fiamma di un Ulisse punito per una sete inestinguibile di conoscenza che lo aveva condotto a valicare ogni limite della sua realtà. Il cordoglio è massimo con le grida dei figli del conte Ugolino, oppresso non tanto dal proprio destino funesto, quanto dal fatto che questo sia condiviso dalla sua prole di tenerissima età ed estranea a ogni meschino gioco di potere. Serpeggia la comprensione al momento della vista di Brunetto Latini, mirabilmente impersonato da un attore dentro un bolla, a ricordare il destino, sfortunatamente molte volte ancora attuale, riservato a tutti coloro considerati “diversi”.
Assistere a questa rappresentazione è un’impresa quasi catartica, in cui il pathos contenuto nelle parole degli attori sembra riverberare con gli echi fin nella nostra coscienza e stuzzica i sensi anche l’impossibilità di distinguere, nell’immensità della caverna, ciò che sia al di fuori del cono di luce.
Infine, dopo quello spettacolo di umanità sofferente, sorge, al pari della speranza prepotente dopo ogni catastrofe, la luce e innalzata in corrispondenza di un’apertura sul soffitto della cavità, inquadrata da uno squarcio di cielo notturno, pittoresco in tutta la semplicità del suo blu, compare Beatrice, scintillante e bianca e sulle note della voce soave che promette la possibilità di redenzione cala il metaforico sipario.

Elena Carbutti, classe terza

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