La valigia del docente

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La scuola, cari colleghi, deve emozionare o non è scuola.


Eccomi qua
Sono venuto a vedere
Lo strano effetto che fa
La mia faccia nei vostri occhi
E quanta gente ci sta
E se stasera si alza una lira
Per questa voce che dovrebbe arrivare
Fino all’ultima fila

Questo brano celebre, di Francesco De Gregori, s’intitola “La valigia dell’attore” e traccia il bilancio esistenziale di una coppia di teatranti, operanti in piccole sale di paesotti o di grigie periferie urbane. Ci immaginiamo facilmente il pubblico indisciplinato delle loro rappresentazioni, pronto a scaricare sul palcoscenico cesti di verdure dopo i primi secondi non graditi o improvvisamente rapito da storie intriganti o drammatiche o divertito fino alle lacrime da scene comiche o volgari. Allora, immaginiamo le nostre classi, il nostro pubblico, i venticinque o giù di lì adolescenti di fronte a noi, i loro visi. Che cosa facciamo noi se non mettere in scena il nostro spettacolino ogni giorno, se non giocarci la nostra partita nel tentativo di catturare la loro attenzione, di avvincerli con la nostra narrazione? Che cosa ho fatto io, negli anni di permanenza nelle aule scolastiche?
Questa analogia mi ha sempre incantato: il teatro e la scuola, lo spettacolo sulla scena e l’ora di lezione hanno l’identico affascinante obiettivo: suscitare emozioni per indurre a pensare e, quindi, imparare.
Ha detto Piero Angela: “Il nostro cervello è fatto in modo che l’attenzione sia tanto più alta quanto più un avvenimento suscita emozioni”.
La scuola, cari colleghi, deve emozionare o non è scuola. Questo è ciò che ho appreso nella mia vicenda didattica. Facile suscitare emozioni talvolta. Ma è parte integrante del compito di chi insegna ricercare il modo per generarle anche quando ciò appare più faticoso. Facile, ad esempio, emozionare sedicenni col V canto dell’inferno di Dante: ho sempre invidiato i docenti di lettere che hanno l’impareggiabile opportunità di raccontare di Paolo e Francesca. Invidia che raggiungeva vette altissime quando, preparando a casa la lezione, mi maceravo il cervello nel tentativo di creare emozioni ugualmente forti spiegando quel capolavoro assoluto del pensiero scientifico che sono le quattro equazioni di Maxwell. 
E, purtuttavia, ho sempre ritenuto assolutamente necessario farlo. 
Per poter generare emozioni, però, bisogna provarle in prima persona: il lavoro del docente sta veramente all’opposto del lavoro del burocrate. Direi che un dirigente scolastico che voglia scegliere i migliori tra i suoi professori deve semplicemente individuare quelli i cui occhi brillano quando spiegano. Il bravo maestro rivive come se fosse la prima volta le emozioni suscitate da ciò che sta narrando e cerca di trasmetterle alla classe, cerca di consegnare alle venticinque coppie di occhi che ha di fronte il luccichio dei suoi. 
Tutti i classici espedienti dell’arte teatrale e della retorica possono essere usati allo scopo: creare attesa e suspence, disegnare plot narrativi complessi e ingarbugliati con colpi di scena e deus ex machina, concepire e usare immagini, metafore, iperboli e chi più ne ha più ne metta.
Questo è il motivo per il quale ho usato, quando il tempo me lo ha consentito, l’approccio storico anche nell’insegnamento delle mie materie: esso permette di sviluppare in modo naturale il racconto della scoperta di leggi, formule, teoremi, processi come una sorta di giallo risolto collettivamente da generazioni di menti pensanti. Quello che so di fisica quantistica, ad esempio, l’ho imparato vivendo l’incredibile epopea che ha visto come protagonisti uno dei più straordinari gruppi di fisici e matematici mai comparso nella storia della scienza, che hanno dato luogo a colpi di scena mozzafiato per tutto il corso dei primi trent’anni del Novecento. 
Essere comprensibili, ecco il secondo pilastro della divulgazione come dell’insegnamento: le emozioni non si possono creare se non si trasmettono chiaramente i contenuti. Ancora Piero Angela: non c’è argomento, per quanto complesso sia, che non possa essere spiegato a un bambino. 
Però, lo sappiamo bene, essere comprensibili senza essere approssimativi o grossolani richiede sforzo, a volte veramente enorme: la semplicità costa moltissimo. Posso senz’altro affermare che una percentuale davvero notevole del tempo che ho impiegato nel preparare le lezioni è stata dedicata a rendere digeribili concetti che, letti sui libri, erano da mal di stomaco.
Comunicazione di concetti chiari e trasparenti e trasmissione di emozioni significa sensazione di pienezza al termine della lezione perfettamente riuscita: vedi gli sguardi luccicanti dei ragazzi e pensi che magari qualcuno ha deciso di iscriversi a matematica o a fisica proprio in quel momento; al contrario, lezione che non ha funzionato per difetto di chiarezza o per freddezza espositiva o per entrambe le cose uguale fastidio quasi fisico, addirittura a volte un penoso senso di fallimento e di vergogna.
E con le classi cosiddette difficili? Il compito del docente rimane lo stesso.
Tutti hanno provato ostilità verso le classi piatte, più o meno rumorosamente disinteressate. Ci siamo lamentati con i colleghi e abbiamo trovato conforto quando li abbiamo scoperti consonanti con noi: ma la verità è che fa parte dei nostri compiti generare fascinazione, sempre e comunque. Se ho un rimpianto alla fine della carriera, è quello di non essere stato sempre aderente a questo principio, lasciandomi talvolta trascinare dall’insofferenza o dalla fretta.
E allora la conclusione è: non può esserci corso di formazione, corso di aggiornamento, seminario, webinar e via discorrendo che possano bastare a creare il “bravo insegnante”: certo, è indispensabile conoscere tutta l’impalcatura teorica e metodologica, ma se manca il fuoco a che serve avere tanta paglia?
Ho avuto il privilegio di lavorare nel migliore dei mondi possibili, a contatto con ragazzi e ragazze: allegri, tristi, entusiasti, depressi, divertenti, spontanei, innamorati o delusi dall’amore, pieni di inventiva, creativi o spenti, con gli occhi aperti sul futuro o chiusi per non vederlo, pieni di buona volontà o inerti come sassi lunari, impertinenti o timidi come pulcini appena nati… ragazzi e ragazze per i quali, molto molto più che per gli adulti, ciò che conta davvero sono le emozioni e le passioni. Sono felice e grato per aver passato una parte così importante della mia vita insieme con loro, così come sono felice e grato di aver condiviso con voi, carissimi colleghi e amici che lavorate qui dentro, questa straordinaria avventura.

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