Donna e madre nella Divina Commedia

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Facile rimanere affascinati dalle tante eroine protagoniste della “Divina Commedia”.

Il primo pensiero corre alla sfortunata Francesca. La sensibilità di Dante narratore ce la presenta quasi angelica in un’aura infernale,senza luce e sembra che persino il Cielo le voglia offrire un attimo di gloria nella dannazione eterna. La pietà di Dante di fronte a lei si esprime in quelle similitudini senza pari e senza tempo che introducono l’incontro con i due amanti. Essi vanno nell’aria del primo cerchio infernale, sbattute dalla bufera “che mai non resta” come stormi che partono ai primi freddi, mossi dal vento in tutte le direzioni e paiono gru che “van cantando lor lai”. Al richiamo di Dante, tanto appassionato e gentile si accostano a lui “quali colombe dal disio chiamate” in un’immagine plastica che nessun lettore può cancellare dalla memoria, per quanto rimane incantato a contemplare un incontro unico, forse, nella storia della letteratura. Francesca, donna colta, amante della letteratura, tocca le corde più profonde del cuore di Dante poeta, attratto egli stesso da quella letteratura che tanto è stata funesta per i due amanti. La pietà che lo assale si traduce in rispetto e discrezione per l’anima di Francesca che, sia pur dannata, sembra avere caratteri divini e le sue dolci parole potrebbero essere pronunciate addirittura da un’anima beata, se non fosse che l’amore di cui ella parla è un amore tutto umano, che nulla ha del vero Amore che Dante incontrerà di persona, faccia a faccia nell’ultima cantica. Eroina, Francesca, donna amante, esempio ante litteram di emancipazione femminile in un Medioevo crudele che relega la donna ad una vita priva di scelte.
Così anche la beata Piccarda, vittima di uomini “usi al male più che al bene”, trascinata fuori dalla “dolce chiostra”, simbolo della condizione di beatitudine cui è destinata, per un matrimonio d’interesse già programmato e deciso per lei dalla famiglia. Nel racconto della sua triste esistenza terrena Piccarda ricorda di essere stata nel mondo “vergine sorella”, rivolgendosi a Dante con un sorriso compiacente e benevolo, che ricorda quello di una madre e richiama il sorriso di Beatrice di qualche verso precedente, fissata in atteggiamento materno: sorride come madre che comprende l’errore del figlio (il “pueril coto” di Dante), non redarguisce e giustifica (“poi sopra ‘l ver ancor il piè non fida”, Par.III,27), in attesa fiduciosa di un cambiamento del figlio. Piccarda adotta anch’ella l’atteggiamento materno prima di fornire al pellegrino Dante le risposte ai dubbi che lo assalgono (“pria sorrise un poco”, v.67). Alla seconda richiesta di Dante accenna alla sua tragedia di donna violentata, ma non scende nei dettagli, misura le parole ancor più di Francesca (“Iddio sa qual poi mia vita fusi”), non nutre rancore verso i suoi aggressori perché non“fu dal vel del cor già mai disciolta”.
Legate all’Amore celeste sulla Terra e mai sciolte da esso sono le donne che Piccarda cita nel suo discorso. Chiara di Assisi, fondatrice dell’ordine in cui Piccarda aveva donato il suo cuore a Dio, è chiamata “donna”, non madre, come di solito è nominata la fondatrice di un ordine monastico femminile. Piccarda indica a Dante la “luce” di Costanza d’Altavilla, scesa con gli altri nel cielo della Luna per accogliere il pellegrino. Per lei Dante usa il verbo “generare”, quando ricorda la sua avventura terrena, per molti aspetti simile a quella di Piccarda. Costanza, suora nel cuore come Piccarda, costretta dalla ragion di Stato al matrimonio, ha generato “di Soave il terzo e l’ultima possanza”. La sua storia è, però, riferita da Piccarda; Costanza non compare come personaggio e nulla sappiamo di lei in quanto madre di un uomo, sia pure illustre e con un determinante ruolo storico.
La cantica più popolata di personaggi femminili è il Purgatorio. La cantica della misericordia sembra essere il luogo ideale per accogliere figure di donne, figlie, vedove, mogli, figure storiche o mitiche, esempi di virtù o di vizi.
Ancora una storia di violenza perpetrata da uomini è quella di Pia de’ Tolomei, donna nobile, vittima del marito che non la ama. Incontrando Dante, gli chiede solo di essere ricordata nelle sue preghiere, con un sentimento gentile di rispetto della sua persona. Prevede la fatica del viaggio del pellegrino Dante e rispetta i suoi tempi di riposo: “Quando sarai tornato sulla Terra e non prima di esserti riposato, ricordati di me!”-gli dice. Non un cenno di nostalgia, tanto meno di rancore affiora nelle parole di questo personaggio delicato e dolce, come si addice ad un’anima che è già in cammino verso la beatitudine e che, come le anime del V canto, è scelta proprio allo scopo di celebrare la misericordia divina.
A questa donna di nobile famiglia e di nobile sentire corrisponde, alcuni canti più avanti, un’altra donna senese, Sapia che, al contrario del significato del nome, non fu saggia e, travolta dall’invidia, godeva per i danni altrui: così ella stessa si descrive (Purg.XIII,109 ss.). Diversamente da Pia, non prova nobili sentimenti, non si presenta con gentilezza e discrezione, ma dichiara apertamente il suo errore, il suo parteggiare politico per cui ha desiderato la sconfitta della parte avversa dei suoi concittadini. Appare in lei la figura di una donna attratta dalla lotta politica e inserita nelle lotte di fazione, tipica del Medioevo, ma che richiama alla nostra mente donne di epoche più recenti implicate nella lotta politica.
Il Purgatorio è per sua natura un luogo tra cielo e terra, in cui Dante riporta esempi di uomini e donne salvati, in cammino verso la redenzione, una strada irta di sofferenze, che si dissolvono nel pregustare i frutti della beatitudine. La Terra è ancora presente con tutto il carico di peccato e alcune figure femminili costituiscono ancora dei cattivi esempi. La parola “femmina” si oppone a “donna” e indica donne peccatrici, che hanno tradito l’amore per la famiglia, per la patria. L’esempio di Nella, moglie di Forese, che “con suo pianger dirotto” e i “suoi prieghi devoti e con sospiri” (Purg.XXIII, 87ss.) ha permesso all’anima dell’amato marito di abbandonare la spiaggia della montagna, dove Dante si aspettava di trovarlo, e di salire fino alla sesta cornice, è contrapposto al cattivo esempio di un’altra vedova, moglie di Nino Visconti. Questi chiede a Dante di rivolgersi soltanto alla figlia, quando sarà tornato sulla Terra, a domandare preghiere perché è certo che la sua vedova non lo ami più “poscia che trasmutò le bianche bende”, andando sposa ad un membro di un altro ramo della sua famiglia. Nella sua persona è evidente “quanto in femmina foco d’amor dura” (Purg.VIII,77). La femmina è volubile, trasmuta facilmente i propri sentimenti, non è affidabile. Di “femmina” si parla in Purg.XIX,7ss., in un sogno del protagonista Dante. Si tratta di una visione inquietante: una femmina balbuziente, guercia, sciancata, pallida e con dei moncherini al posto delle mani. Essa è un’immagine sintesi dei vizi, simbolo dell’eccessivo attaccamento ai beni terreni. Subito dopo una “donna”, definita “santa e presta” appare per confondere la “femmina” deforme (idem, vv.25-27). Al termine del cammino di purificazione altre donne appaiono in sogno a Dante: Lia, Rachele, simboli di due aspetti della vita cristiana, l’azione e la contemplazione. Si arriva poi al Paradiso terrestre dove altre figure femminili simboliche entrano nell’esperienza del pellegrino Dante. Matelda, lieve e dolce, immersa in una natura pura e spirituale, in un’atmosfera che prelude alla beatitudine, cui Dante, ormai autonomo (Virgilio gli ha appena detto di non aspettarsi altro da lui: “libero, dritto e sano è tuo arbitrio”, Purg.XXVII,140), è avviato. L’immagine di Matelda che canta e “coglie fior da fiore”, mentre pare che balli, allieta lo spettatore, ammaliato da quella spirituale presenza e dal sorriso.
Sguardo e sorriso sono i caratteri che d’ora in avanti dominano nelle figure femminili della Divina Commedia. Saranno i connotati di Beatrice che a breve scenderà nuovamente dal cielo(lo aveva già fatto per invitare Virgilio ad aiutare Dante perso nella selva oscura), questa volta nel Paradiso terrestre. Sorrisi e sguardi della sua donna accompagneranno Dante nell’ultima parte del viaggio. I sorrisi e gli sguardi lo confortano, lo sostengono quando compie degli errori, quando si lascia ancora ingannare dal “falso imaginar”, perché ancora legato ai suoi limiti terreni, all’inizio del viaggio nel Paradiso. I sorrisi e lo sguardo amorevole lo invogliano a rivolgersi ai beati che incontra nei cieli, a esplicitare i suoi dubbi, sebbene non ce ne sia bisogno, visto che i beati possono penetrare il suo pensiero. La sollecitudine e la discrezione sono i modi con cui Beatrice tratta Dante, sono gli stessi modi con cui una madre tratta il figlio: “Ond’ella, appresso di un pio sospiro,/gli occhi drizzò ver me con quel sembiante/che madre fa sovra figlio deliro”(Par. I, 100-102). Beatrice assume l’aspetto della madre che si china sul figlio febbricitante (e Dante è ancora debole nei sentimenti e nello spirito), sospira affettuosamente con la pazienza amorevole di una madre, parla appena (si era già rivolta a lui “con sorrise parolette brevi”), non rimprovera, ma sospira, sa attendere che il figlio comprenda. Conosce i limiti del figlio, non si risparmia in spiegazioni, ma gliele fornisce con il sorriso, in attesa che il figlio giunga da sé allo scioglimento dei propri dubbi. Virgilio aveva svolto il ruolo di padre, ora Beatrice assume quello di madre. Virgilio talvolta rimprovera Dante, gli intima di tacere e lasciar parlare lui con alcuni personaggi, lo incita di fronte a personaggi esigenti, Beatrice si muove con compassione e cura, pronta a identificarsi nei sentimenti e nei pensieri di Dante, a offrire spiegazioni e consigli quando il suo animo è stranito e dubbioso di fronte alla novità del Cielo.
Non vi è tra i personaggi della Divina Commedia una madre che sia “dannata” per essere stata una cattiva madre o che sia “beata” per aver incarnato la perfezione della maternità. Di tutte le donne cui abbiamo accennato fin qui nulla sappiamo riguardo al loro essere madri. Dante, forse, intende incarnare l’ideale di maternità in più soggetti e Beatrice ne è un esempio. Ella non è madre, è guida spirituale, ma ha in sé i caratteri di una madre. L’idea che Dante ha della maternità si incarna in più figure, anche anonime, in personaggi tipici, più in personaggi storicamente individuabili. La stessa Costanza, di cui abbiamo parlato, non è ricordata per la sua azione di madre. Un rapido cenno Dante riserva alle madri di Francesco e Domenico, i due principi destinati a riformare la Chiesa. Francesco fece sentire la sua “vertute” quando “non era ancor molto lontano dall’orto” (Par. XI,55, dove si allude ad un sogno premonitore della madre quando era ancora nel suo ventre) e Domenico “viva vertute…nella madre…fece profeta” (Par.XII,59-60). Le madri di uomini voluti dalla Provvidenza per realizzare grandi opere hanno doni degni dei loro nascituri. Anche queste figure non hanno, però, autonomia nella narrazione dantesca. Ugualmente le madri della Firenze antica ricordate in Par. XV, protagoniste di una società che non esiste più, modelli di donne semplici, dedite alla cura dei figli, chine sulla culla, pronte a consolare i fragili fanciulli, capaci di creare quel linguaggio che consola e allieta non solo i piccoli, ma anche padri e madri, dotate della capacità di raccontare le virtù antiche secondo cui educano i figli. In questo contesto di pace e virtù Cacciaguida ricorda sua madre Maria che lo partorisce “chiamata in alte grida”. Ecco l’idea di madre che Dante vuole lasciare nella mente del lettore: modello fatto di sollecitudine, di dolci sorrisi, di sguardi incoraggianti e di un ruolo educativo esplicato attraverso la parola, il racconto della tradizione, la trasmissione di virtù antiche e sempre valide nella vita dell’uomo adulto.
Le figure femminili confluiscono nel sommo modello dell’ultimo canto del Paradiso, nell’immagine di Vergine e Madre di colei che ha congiunto nella sua persona la Terra e il Cielo, colei che ha nobilitato a tal punto la natura umana che il suo Creatore non ha disdegnato di farsi creatura in lei. In lei è il compimento di ogni umana forma e in lei si raccolgono tutte quelle virtù parzialmente incarnate nelle singole figure femminili. La preghiera alla Vergine, pronunciata da Bernardo e divenuta oggi preghiera per i credenti ed eccelsa poesia per tutti, esprime la fede nell’opera di redenzione e di protezione della Madre celeste nei confronti dell’umanità. La sua grazia va in soccorso di tutti gli uomini prima ancora che le venga richiesta e precorre ogni desiderio umano. L’uomo che non si affidi a lei può sperare invano: significa che le attenzioni materne sono portate alla perfezione nell’immagine santa della Vergine. Inutile ripercorrere parola per parola il canto sublime di Bernardo, a cui si associa l’intera rosa dei beati; basta cogliere i caratteri di perfezione della Vergine santa che è insieme “umile e alta” ed è colei che per umile adesione alla volontà di Dio ha accolto in sé l’Amore e l’ha donato all’umanità. Dal suo consapevole sì, come solo una madre fa di fronte alla vita, è scaturita la possibilità per gli uomini di salire alla presenza di Dio e di vivere al suo cospetto nell’armonia perfetta e nella somma carità che Lui promana. Maria, Vergine e Madre, si presenta, dunque, come modello ideale di donna e madre, caratterizzato dalla disposizione al dono, dall’umiltà servizievole rispetto alla vita, dall’adesione incondizionata all’Amore.  

 

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